
Storie di autenticità: Fabio Ceschina
Testo by: Martina Moretti Instagram
Una vocazione alla scultura nata da un triplo battesimo o, come meglio lo definisce Fabio, un imprinting in tre fasi.
Dapprima infante, quando il padre lavorava alla costruzione del tunnel del Gottardo e gli operai erano freneticamente all’opera con i loro scalpelli per bucare e modellare quella grande montagna: già il suono degli strumenti sulla pietra era diventato una nenia familiare e rassicurante.
Poi bambino e ragazzino, tra i monti lariani, quando l’estate segnava puntuale l’arrivo dalla Svezia di un lontano cugino artista, che allestiva sempre qui un suo atelier. È tra gli odori di vernice, pennelli e bozzetti, che arrivano le prime esperienze artistiche in un vero laboratorio.
Infine, in età più matura, quando conclude la facoltà di architettura e poi approfondisce con l’accademia di belle Arti.
Così, adulto, Fabio recupera le sue origini, ritornando con corpo e mente al suo essere comasco e figlio della Val d’Intelvi. Scolpisce e modella privilegiandoli tra tutti pietra, bronzo e marmo. Sono spesso volti di donna, o parti di essa; più in generale figure umane che si contraddistinguono per geometrie definite, ortogonalità, razionalismo. Mai isolate, sempre in gruppi. Dialogano tra loro secondo la tradizione iconografica che un altro intelvese, decine di secoli prima, rispondendo al nome di Benedetto Antelami, aveva elevato superbamente. Un’arte per tutti la sua, dove la plasticità delle figure suggerisce storie e delinea racconti di vita. Vengono custoditi nelle forme che la mano umana scopre e imprime. Possono rimanere laddove sono nate o portare altrove il loro verbo silenzioso; invadendo nuove case, contaminando nuovi giardini privati o spazi di pubblica appartenenza.
